Carissimi sorelle e fratelli parrocchiani,
Vi scrivo mentre è ancora forte nel cuore il dolore per la morte di Papa Francesco. In questi giorni sono stati tanti i discorsi e le riflessioni che hanno cercato di cogliere il significato del suo pontificato e ciò che la sua persona ha rappresentato per la Chiesa e il mondo interno. Dedico gran parte di questo numero di “Apriti” al messaggio che la Conferenza Episcopale Italiana ha diffuso in occasione della morte di Papa Francesco: mi sembra che riassuma molto bene la sua figura di Pastore della Chiesa e la sua missione:
“«Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i
suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1)
Queste parole del Vangelo di Giovanni sembrano oggi più che mai adatte a descrivere il
Pontificato di Francesco. Sono ancora negli occhi di tutti, infatti, le ultime immagini,
mentre passa attraverso la folla di Piazza San Pietro nella Domenica di Risurrezione. E in
realtà è proprio la contemplazione del Risorto, il Cristo Buon Pastore, a sostenere la Chiesa
italiana in questo momento in cui eleva la sua preghiera di suffragio per Papa Francesco,
Vescovo di Roma e Primate d’Italia. Con parole incisive e gesti profetici, Francesco si è
rivelato davvero Pastore di tutti secondo il cuore misericordioso del Padre (cf. Ger 3,15).
Sin dall’inizio del suo ministero petrino, ha mostrato una particolare vicinanza al suo
gregge, che ha condotto con sapienza e coraggio.
In particolare, i Vescovi italiani gli sono grati per il costante dialogo e, soprattutto, per aver
incarnato per primo quello straordinario programma di vita che aveva sintetizzato
invitando ad essere sacerdoti con l’odore delle pecore e il sorriso dei padri (cfr. Omelia,
Santa Messa del Crisma, 2 aprile 2015). Torna alla mente il “buona sera” con cui si è
presentato alla Chiesa e al mondo intero: quel saluto ha rappresentato uno spartiacque,
l’inizio di un rapporto tra un padre e i suoi figli a cui ha ricordato quanto il Vangelo sia
attraente, gioioso, capace di dare risposta alle tante domande della storia, anche a quelle
sopite o soffocate. Da padre, ha indicato la via dell’ascolto e della prossimità,
incoraggiando a uscire dalle logiche del consenso, dell’abitudine, dalla tentazione dello
scoraggiamento o del potere che limita lo sguardo all’io senza aprirlo al noi. L’invito rivolto
ai partecipanti al Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze ha tracciato una rotta precisa:
«Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati,
agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende,
accompagna, accarezza» (10 novembre 2015). Questo desiderio continua a ispirare le
azioni delle comunità ecclesiali. «Abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, nessuno di noi è un’isola, […] possiamo costruire il futuro solo insieme, senza escludere nessuno», è stato
uno degli insegnamenti più incisivi del Pontificato, che ha attraversato il dramma della
pandemia, con il suo carico di dolore, solitudine e morte. L’incedere del Santo Padre, da
solo, in silenzio, su una Piazza San Pietro vuota, in occasione del “Momento straordinario
di preghiera in tempo di epidemia” (27 marzo 2020), resta scolpito nelle menti e nei cuori
di tutti. Così come il capo chino e le lacrime davanti all’Immacolata, alla quale spesso ha
affidato l’angoscia per il dramma delle guerre, chiedendo a tutti di diventare artigiani di
pace, ogni giorno, nelle pieghe della quotidianità, in ogni ambito di vita.
La Chiesa in Italia lo ringrazia, in modo speciale, per il dono del Cammino sinodale e
l’incessante incoraggiamento ad andare avanti insieme. E oggi, insieme, affida il suo
Pastore, che ha amato davvero i suoi sino alla fine, all’abbraccio tenero e misericordioso
del Padre”.
Concludo esprimendo quella che a mio parere è stata una delle caratteristiche più belle di Papa Francesco: “il suo farsi toccare”. Milioni di fedeli nelle piazze, visite pastorali in ogni angolo della terra, udienze, incontri con malati, poveri, carcerati, bambini, giovani…: alla fine salutava stringendo la mano a ciascuno. Quanti abbracci. Quante carezze.
Quante strette di mano. E lui non si è mai tirato indietro. Così è stato lo scorso 14 Maggio
2024 quando è venuto in visita privata nella nostra Parrocchia per incontrare i sacerdoti
anziani della Diocesi, senza risparmiarsi nel salutare i bambini presenti in Basilica e la gente
accorsa fuori per incontrarlo. Papa Francesco ha sempre cercato il contatto, fino alla fine
(salutando il giorno di Pasqua i fedeli accorsi in Piazza San Pietro).. Perché? Rispondo con
le parole di padre Ezio Lorenzo Bono: “Perché toccare è uno dei linguaggi privilegiati
dell’amore. Toccare vuol dire riconoscere, accogliere, consolare. Le mani parlano quando
le parole non bastano; anzi, spesso parlano più delle parole. Lo sanno bene le mamme,
che calmano i loro figli con una carezza. Lo sanno i medici, quando toccano i corpi degli
ammalati. Lo sanno i sacerdoti, che celebrano i sacramenti e ungono i corpi con il santo
olio. Lo sanno gli innamorati e gli amici, quando si prendono per mano. Lo sanno gli educatori, quando posano una mano sulla spalla dei loro alunni infondendo fiducia e coraggio. Papa Francesco parlava spesso dei tre linguaggi fondamentali dell’educazione e della fede: la mente, il cuore e le mani. Non basta solo pensare. Non basta solo sentire.
Bisogna agire. Bisogna toccare. Un’educazione che resta confinata nelle idee o nelle emozioni è incompleta. Serve il gesto. Serve la concretezza. Servono mani che costruiscono, che servono, che curano, che accarezzano. Educare toccando. Evangelizzare toccando.
Questo è stato lo stile di Papa Francesco. Questo è il Vangelo”.
Grazie Papa Francesco.
don Tommaso
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