Giovanni 10, 11-18
11 Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12 Il mercenario – che non è
pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e
il lupo le rapisce e le disperde; 13 perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14 Io sono il
buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15 così come il Padre conosce
me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16 E ho altre pecore che non provengono da
questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo
gregge, un solo pastore. 17 Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di
nuovo. 18 Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla
di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Ascoltiamo la Parola
Gesù si definisce “buon [bello, in greco] pastore” e dà subito dopo il criterio per capire se un
pastore è buono/bello o no: “dare la propria vita per le pecore”. Egli è talmente libero e legato alle
sue pecore che rischia di morire per loro. Il modo in cui guida è legato alla “voce”, che le pecore
seguono perché egli “conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui”. Non si tratta, nel
linguaggio semitico e greco, di una conoscenza puramente teorica e astratta, ma di una conoscenza
che sfocia nell’affidamento e nella fiducia. E’, cioè, una “scientia affectiva”, come diceva s.
Bonaventura, un moto profondo che implica il desiderio e la volontà di “conformarsi” al pastore.
Non significa tradire sé stessi, ma assumere dentro di sè i sentimenti, le motivazioni, gli ideali di
Gesù stesso. Noi spesso leghiamo la fede a nozioni di catechismo o a “cose-da-sapere”, mentre,
prima di tutto – e il vangelo non si stanca mai di ripetercelo – la fede è un rapporto stretto,
personale, affettivo con Gesù, l’amico che è pronto a dare la vita per noi.